Il ricco e il povero Lazzaro


DA: MONASTERO DI BOSE DI ENZO BIANCHI

Dopo la parabola dell’economo ingiusto ascoltata domenica scorsa (cf. Lc 16,1-8), oggi ci viene proposta una seconda parabola di Gesù sull’uso della ricchezza, contenuta sempre nel capitolo 16 del vangelo secondo Luca: la parabola del ricco e del povero Lazzaro.

“C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e bisso, banchettando splendidamente ogni giorno”. Di costui non si dice il nome, ma viene definito dal suo lusso e dal suo comportamento. I ricchi devono farsi vedere, devono imporsi e ostentare: da allora fino a oggi non è cambiato nulla, e chi pensa di essere potente e ricco, anche nella chiesa, vuole esibire i segni del potere e osa addirittura affermare che i segni che porta e di cui si riveste sono a gloria a Dio…

L’altra dimensione con cui i ricchi nell’antichità si facevano vedere era il loro banchettare con ostentazione. Per gli altri uomini la festa è un’occasione rara, per i poveri è impossibile, mentre per i ricchi ogni giorno è possibile festeggiare. Ma festeggiare cosa? Se stessi e la loro situazione privilegiata, senza mai pensare alla condivisione. Questo ricco, in particolare, mai aveva invitato i poveri, mai si era accorto del povero presente davanti alla sua porta, e dunque mai aveva praticato quella carità che la Torah stessa esigeva. Ma qual è la malattia più profonda di quest’uomo? Quella che papa Francesco, in una sua omelia mattutina, ha definito mondanità: l’atteggiamento di chi “è solo con il proprio egoismo, dunque è incapace di vedere la realtà”.

Accanto al ricco mondano, alla sua porta, sta un altro uomo, “gettato” là come una cosa, coperto di piaghe. Non è neanche un mendicante che chiede cibo, ma è abbandonato davanti alla porta della casa del ricco. Nessuno lo guarda né si accorge di lui, ma solo dei cani randagi, più umani degli esseri umani, passandogli accanto gli leccano le ferite. Questo povero ha fame e desidererebbe almeno ciò che i commensali lasciano cadere dalla tavola o buttano sul pavimento ai cani (cf. Mc 7,28; Mt 15,27). La sua condizione è tra le più disperate che possano capitare a quanti sono nella sofferenza. Eppure Gesù dice che costui, a differenza del ricco, ha un nome: ‘El‘azar, Lazzaro, cioè “Dio viene in aiuto”, nome che esprime veramente chi è questo povero, un uomo sul quale riposa la promessa di liberazione da parte di Dio.

In ogni caso, sia il ricco sia il povero condividono la condizione umana, per cui per entrambi giunge l’ora della morte, che tutti accomuna. Un salmo sapienziale, già citato altre volte, presenta un significativo ritornello: “L’uomo nel benessere non comprende, è come gli animali che, ignari, vanno verso il mattatoio” (cf. Sal 49,13.21). Il ricco della parabola non ricordava questo salmo per trarne lezione e neppure ricordava le esigenze di giustizia contenute nella Torah (cf. Es 23,11; Lv,19,10.15.18, ecc.) né i severi ammonimenti dei profeti (cf. Is 58,7; Ger 22,16, ecc.). Di conseguenza, era incapace di responsabilità verso l’altro, di condivisione. Il vero nome della povertà è condivisione, al punto che Gesù si è spinto fino ad affermare: “Fatevi degli amici con il denaro ingiusto, perché, quando questo verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). Ma questo ricco non l’ha capito…

Quando muore Lazzaro, il suo nome mostra tutta la sua verità, perché il funerale del povero (che forse non c’è stato materialmente, perché l’avranno gettato in una fossa comune!) è officiato dagli angeli, che vengono a prenderlo per condurlo nel seno di Abramo. La vita di Lazzaro non si è dissolta nel nulla, ma egli è portato nel regno di Dio, dove si trova il padre dei credenti, di cui egli è figlio: colui che era “gettato” presso la porta del ricco, ora è innalzato e partecipa al banchetto di Abramo (cf. Mt 8,11; Lc 13,28). Il ricco invece ha una sepoltura come gli si conviene, ma il testo è laconico, non precisa nulla di un suo eventuale ingresso nel Regno.

Ecco infatti, puntualmente, una nuova situazione, in cui i destini dei due uomini sono ancora una volta divergenti, ma a parti invertite. Ciò che appariva sulla terra viene smentito, si mostra come realtà effimera, mentre ci sono realtà invisibili che sono eterne (cf. 2Cor 4,18) e che dopo la morte si impongono: il povero ora si trova nel seno di Abramo, dove stanno i giusti, il ricco negli inferi. Alla morte viene subito decisa la sorte eterna degli esseri umani, preannuncio del giudizio finale, e le due vie percorse durante la vita danno l’esito della beatitudine oppure quello della maledizione. A Lazzaro è donata la comunione con Dio insieme a tutti quelli che Dio giustifica, mentre al ricco spetta come dimora l’inferno, cioè l’esclusione dal rapporto con Dio: egli passa dall’avere troppo al non avere nulla.

Nelle sofferenze dell’inferno, il ricco alza i suoi occhi e “da lontano” vede Abramo e Lazzaro nel suo grembo, come un figlio amato. Egli ora vive la stessa condizione sperimentata in vita dal povero, ed è anche nella stessa posizione: guarda dal basso verso l’alto, in attesa… Non ha potuto portare nulla con sé, i suoi privilegi sono finiti: lui che non ascoltava la supplica del povero, ora deve supplicare; si fa mendicante gridando verso Abramo, rinnovando per tre volte la sua richiesta di aiuto. Comincia con l’esclamare: “Padre Abramo, abbi pietà di me”, grido che durante la vita non aveva mai innalzato a Dio, “e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché sono torturato in questa fiamma”. Chiede insomma che Lazzaro compia un gesto di amore, che lui mai aveva fatto verso un bisognoso.

Ma Abramo gli risponde: “Figlio, durante la tua vita hai ricevuto i tuoi beni, mentre Lazzaro i suoi mali; ora egli qui è consolato, tu invece sei torturato”. Un modo schematico ma efficace per esprimere come il comportamento vissuto sulla terra abbia precise conseguenze nella vita oltre la morte: il comportamento terreno è già il giudizio, da esso dipendono la salvezza o la perdizione eterne (cf. Mt 25,31-46). Così la beatitudine rivolta da Gesù ai poveri e il “guai” indirizzato ai ricchi (cf. Lc 6,20-26) si realizzano pienamente. Poi Abramo continua servendosi dell’immagine dell’“abisso grande”, invalicabile, che separa le due situazioni e non permette spostamenti dall’uno all’altro “luogo”: la decisione è eterna e nessuno può sperare di cambiarla, ma si gioca nell’oggi…

Qui il racconto potrebbe finire, e invece il testo cambia tono. Udita la prima risposta di Abramo, il ricco riprende la sua invocazione. Non potendo fare nulla per sé, pensa ai suoi famigliari che sono ancora sulla terra. Lazzaro potrà almeno andare ad avvertire i suoi cinque fratelli, ad ammonirli prospettando loro la minaccia di quel luogo di tormento, se vivranno come l’uomo ricco. Ma ancora una volta “il padre nella fede” (cf. Rm 4,16-18) risponde negativamente, ricordandogli che Lazzaro non potrebbe annunciare nulla di nuovo, perché già Mosè e i Profeti, cioè le sante Scritture, indicano bene la via della salvezza. Le Scritture contenenti la parola di Dio dicono con chiarezza come gli uomini devono comportarsi nella vita, sono sufficienti per la salvezza. Occorre però ascoltarle, cioè fare loro obbedienza, realizzando concretamente quello che Dio vuole!

Ma il ricco non desiste e per la terza volta si rivolge ad Abramo: “Padre Abramo, se qualcuno dai morti andrà dai miei fratelli, saranno mossi a conversione”. Abramo allora con autorità chiude una volta per tutte la discussione: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neppure se qualcuno risorge dai morti saranno persuasi”. Parole definitive, eppure ancora oggi molti cristiani faticano ad accoglierle, perché sono convinti che le Scritture non siano sufficienti, che occorrano miracoli straordinari per condurre alla fede…

No, i cristiani devono ascoltare le Scritture per credere, anche per credere alla resurrezione di Gesù, come il Risorto ricorderà agli Undici: “Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” (Lc 24,44). Egli stesso, del resto, poco prima aveva detto ai due discepoli in cammino verso Emmaus: “‘Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i Profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?’. E, cominciando da Mosè e da tutti i Profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,25-27). Non a caso anche nella professione di fede il cristiano confessa che “Cristo morì secondo le Scritture, fu sepolto ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1Cor 15,3-4). Le Scritture testimoniano ciò che si è compiuto nella vita e nella morte di Gesù Cristo, testimoniano la sua resurrezione. Se il cristiano prende consapevolezza delle parole di Gesù (cf. Lc 24,6-7) e ascolta le Scritture dell’Antico Testamento, giunge alla fede nella sua resurrezione.

Questa parabola ci scuote, scuote soprattutto noi che viviamo nell’abbondanza di una società opulenta, che sa nascondere così bene i poveri al punto di non accorgersi più della loro presenza. Ci sono ancora mendicanti sulle strade, ma noi diffidiamo delle loro reale miseria; ci sono stranieri emarginati e disprezzati, ma noi ci sentiamo autorizzati a non condividere con loro i nostri beni. Dobbiamo confessarlo: i poveri ci sono di imbarazzo perché sono “il sacramento del peccato del mondo” (Giovanni Moioli), sono il segno della nostra ingiustizia. E quando li pensiamo come segno-sacramento di Cristo, sovente finiamo per dare loro le briciole, o anche qualche aiuto, ma tenendoli distanti da noi. Eppure nel giorno del giudizio scopriremo che Dio sta dalla parte dei poveri, scopriremo che a loro era indirizzata la beatitudine di Gesù, che ripetiamo magari ritenendola rivolta a noi. Siamo infine ammoniti a praticare l’ascolto del fratello nel bisogno che è di fronte a noi e l’ascolto delle Scritture, non l’uno senza l’altro: è sul mettere in pratica qui e ora queste due realtà strettamente collegate tra loro che si gioca già oggi il nostro giudizio finale.


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